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Organizzazione

Siamo stati tutti seriamente impegnati nella drammatica battaglia per il contenimento della diffusione del virus.

Lo abbiamo fatto adeguando i nostri comportamenti pur continuando a svolgere il nostro lavoro.

Abbiamo contrattato, al meglio possibile nelle condizioni date e comunque sempre con il massimo impegno da parte di tutte le nostre strutture, sulle condizioni di sicurezza da realizzare per tutti coloro che erano chiamati a restare al lavoro, anche sperimentando, dove possibile, il lavoro da remoto che nella nostra categoria ha riguardato svariate decine di migliaia di lavoratori.

Allo stesso modo, assieme alla Confederazione, abbiamo lavorato per l’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti coloro che non potevano lavorare, anche conquistando importanti risultati per tutte quelle figure atipiche normalmente escluse da tale protezione, specialmente nel settore della produzione culturale e dello sport, anche se rimangono ancora troppi lavoratori esclusi dalle tutele.

Siamo ora alla vigilia della così detta “seconda fase”. Dovremo lavorare ancora per un allargamento delle tutele e per garantire che la ripartenza non porti con se altri drammi.

Servirà di nuovo discutere e sottoscrivere accordi per i necessari cambiamenti da ottenere nell’organizzazione fisica del lavoro, sulle procedure di sanificazione e rispetto dei principi sanitari prescritti nei luoghi di lavoro, ma sarà necessario anche aggredire il grande tema del regime degli orari.

Questa emergenza sanitaria ha comportato che milioni di lavoratori stanno svolgendo il loro lavoro da casa. Più che di smart working ad oggi è più corretto parlare di lavoro da remoto “in regime di emergenza”. E’ quindi necessario contrattare nei nostri settori regole e diritti per questa nuova forma di lavoro.

Si aprono scenari del tutto inediti fino a due mesi fa. Questa remotizzazione massiva non potrà non lasciare un segno nel nostro mondo. Ci si prospetta l’occasione storica di riequilibrare in molti nostri settori il confronto sull’organizzazione del lavoro. Quanto avvenuto in questi due mesi ha
dimostrato come fossero solo dogmi ormai datati le ritrosie di molte imprese ad aprire al lavoro agile. Questi due mesi hanno dimostrato “che si può fare”, sta a noi contrattare il “come si deve fare”, ad iniziare dal grande tema dell’orario di lavoro e della sua rimodulazione possibile anche a fronte di organizzazioni più efficaci ed efficienti.

Ci aspettiamo anche che vengano assunte le decisioni indispensabili per garantire la sicurezza anche fuori dai luoghi di lavoro, a partire dal rischio connesso alla mobilità necessaria per raggiungere il lavoro e rientrare a casa.

Sarà ancora sostanzialmente una contrattazione di emergenza, ma dovremmo anche cominciare a trarre qualche indicazione per le modifiche strutturali che riguarderanno il futuro di tutti, anche immaginando come adeguare i contratti nazionali di lavoro, ivi compresi i rinnovi già avviati.

La contrattazione collettiva in tutte le sue forme, nazionale e di secondo livello, rappresenta uno strumento fondamentale anche nella fase complessa della ripresa e dei cambiamenti auspicati, per intervenire nell’organizzazione del lavoro, per favorire una formazione sempre più mirata, per la valorizzazione professionale ed economica.

A questo punto si impone però anche un altro tema. La Pandemia ha nuovamente messo a nudo, e ancora non siamo alle somme definitive, la seria inadeguatezza strutturale del nostro Paese.

Era già successo, da qualche decennio, di dover fare i conti con un impoverimento progressivo figlio di una crescita costantemente inferiore ai paesi a noi confrontabili, a partire dal resto d’Europa.

E’ successo nell’ultima crisi economica globale: siamo il Paese che ha perso di più nel 2007-2008 e che ha impiegato più tempo di chiunque altro per recuperare. Un quarto del nostro tessuto industriale non è sopravvissuto a quella prova.

Allo stesso modo sono allarmanti i segnali che arrivano dalle analisi sociologiche, basta dare un’occhiata alla serie dei rapporti Censis degli ultimi anni, o semplicemente basta guardarsi attorno con un po’ più di attenzione.

Molti dei nostri giovani qualificati emigrano per trovare un riconoscimento alle loro capacità che non trovano in patria. I nostri salari sono trai più bassi d’Europa, il dilagare della precarietà nel lavoro ha minato la fiducia sul nostro futuro, siamo a crescita demografica negativa e navighiamo
stabilmente nelle parti basse della classifica dell’innovazione.

Gli investimenti privati sono al minimo storico e quelli pubblici hanno subito da anni tagli spaventosi.

Non si investe praticamente più nella scuola e nella cultura.

La Pubblica Amministrazione arranca tra tagli lineari e procedure barocche, i tempi della Giustizia sono infiniti, il nostro assetto istituzionale, a partire dal ruolo delle Regioni, appare palesemente inadeguato.

Si potrebbe continuare, e forse concludere che in queste condizioni l’essere dove siamo ha già del miracoloso. Ed in parte è così, tanto che anche nella fase acuta della crisi sanitaria le strutture hanno retto non in virtù di mezzi, organizzazione e metodo, ma grazie al sacrificio di migliaia di lavoratori, a partire dai medici e dagli infermieri.

Se questo è il quadro significa che, oltre alle doverose risposte quotidiane, la nostra azione deve porsi il tema del cambiamento, deve trarre dalla tragedia in corso la forza per cercare di colmare i nostri ritardi. Per noi non può essere un obiettivo il semplice tornare a prima, dobbiamo
necessariamente approdare ad un futuro diverso, da costruire con le nostre mani.

Molte sono le cose da correggere, ed ognuno deve fare la propria parte, a partire dalla politica che non può limitarsi a gestire il residuo potere che gli resta, ma mettere i piedi nel piatto, visto che trent’anni di neoliberismo e l’idea che il Mercato regoli tutto è clamorosamente fallita, e soprattutto non è in grado di affrontare i problemi del domani, dalla sfida ambientale alle migrazioni dei popoli.

Meglio sarebbe affrontare questa sfida come Unione Europea, visto che è evidente che nel medio periodo l’intero continente è destinato al declino economico, stretto nella morsa tra Cina e USA, fino a correre il rischio di scomparire anche come entità storica e culturale. Certo se sarà possibile
farlo non dipenderà solo da noi, ma questa resta una battaglia che vale la pena combattere.

Per non restare solo ai compiti degli altri dobbiamo anche chiederci che cosa potremmo fare noi.

Certamente sono tante le attività che presidiamo, e diverse sono le opportunità di crescita e cambiamento e per ogni settore dovremmo metterci nelle condizioni di avanzare delle proposte concrete, così come sarà indispensabile una riflessione sulla nostra struttura organizzativa.

Tuttavia fin d’ora ci pare utile soffermarsi, per il suo ruolo assolutamente orizzontale rispetto a tutti i settori, sullo sviluppo della tecnologia digitale e delle comunicazioni, una vera rivoluzione che, se ben utilizzata, potrebbe davvero aiutare un nuovo inizio.

La qualità e la velocità della connessione, l’implementazione della fibra ottica e della tecnologia 5G, la digitalizzazione delle informazioni, l’internet delle cose (IoT), la larga disponibilità di sensori a basso costo e il mare immenso di dati che si possono raccogliere ed elaborare con l’aiuto degli algoritmi, possono restare solo fonte di enormi guadagni per pochi, oppure possono essere utilizzate per migliorare la fruizione delle città, per monitorare il territorio, per ammodernare i processi produttivi nell’industria e nei servizi, per rendere più efficace la Pubblica Amministrazione, per una sanità in grado di curarci meglio, ma anche allargare la fruizione di prodotti culturali, tanto più necessaria in Italia che su questo presenta gravi squilibri e grandi esclusioni.

Ovviamente occorrerà anche tanta attenzione ai diritti delle persone, alla tutela della loro sfera privata. Anzi occorrerà rimediare all’uso improprio della profilazione degli individui che già oggi fa parte della nostra esistenza.

Senza dimenticare queste attenzioni si potrebbe comunque far fare un salto tecnologico al Paese agendo sulla scuola e su un enorme programma di riqualificazione dei lavoratori, si potrebbero dare prospettive di lavoro stabile e corredato di diritti ai nostri giovani.

Tutto ciò non può avvenire per caso, serve un punto di governo di sistema e la volontà politica per realizzarlo. E’ realmente inverecondo dover assistere ancora al balletto su chi deve costruire la rete di nuova generazione, nel mentre il Paese resta drammaticamente indietro non solo sul lato meramente infrastrutturale, ma in quello delle applicazioni connesse, dei servizi digitali innovativi e delle loro concrete applicazioni.

Serve un “Campione Nazionale” nel settore? Noi crediamo di si, senza per questo mettere minimamente in discussione il mercato aperto corredato da regole che garantiscano la piena concorrenza e la libertà di tutte le aziende che già operano o altre che volessero entrare in questo mercato.

Che sia una follia realizzare due reti in fibra in concorrenza tra loro è (finalmente) un punto di vista largamente condiviso, salvo che ad oggi è esattamente quello che sta accadendo in assenza di nuove decisioni.

La nostra opinione è che non basti più solo correggere questa situazione. Forse oggi abbiamo un’occasione irripetibile per rimediare i danni della peggiore privatizzazione realizzata nella storia del nostro Paese (i dati a sostegno della tesi sono tutti noti e disponibili).

Le alterne vicende che hanno travagliato l’azionario di TIM (e che hanno di fatto permesso per anni di sottrarre valore all’Azienda) oggi hanno un assetto che potrebbe consentire di riconsegnare alla nuova TIM il ruolo di “azienda di sistema”.

CdP è tra i maggiori azionisti di TIM e contemporaneamente detiene il 50% di Open Fiber. Una strategia di convergenza tra le due realtà potrebbe realizzarsi attraverso l’uscita di ENEL (sostituita da un fondo di investimento) e il conferimento delle azioni CdP attraverso un concambio con azioni
TIM.

La risultante sarebbe un’azienda con un forte nocciolo di CdP che, col tempo, potrebbe favorire un azionariato che accetti un investimento di lungo periodo.

Alla nuova TIM, che nel frattempo ha realizzato intese con Vodafone sulle torri trasmissive per il 5G e con GOOGLE sui Data Center, si potrebbe affidare quel ruolo di presidio tecnologico nazionale del settore, sempre in un’ottica di mercato aperto alla concorrenza sui servizi regolato da AGICOM.

Tra l’altro in questo modo si salvaguarderebbe una delle poche grandi aziende rimaste nel nostro Paese che è condizione essenziale anche per partecipare attivamente ad un auspicabile processo di consolidamento europeo con Orange e DT, eredi dei rispettivi monopoli ed ancora controllati dal pubblico in Francia e in Germania, anche in funzione di difesa verso la già citata diarchia Usa-Cina che sta schiacciando l’Europa.

Roma 27 aprile 2020

La Segreteria Nazionale SLC

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