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La prevista privatizzazione del Gruppo Poste Italiane appare sempre di più un'operazione in perdita. Lo annuncia una nota congiunta di Cgil e Slc.

Vi è in capo al Governo una chiara sottovalutazione della complessità del Gruppo Poste Italiane, della coniugazione fino ad oggi proficua di attività di mercato e di attività pubblica e sociale; coniugazione che il sindacato ha invece talmente chiara da aver proposto, in fase di rinnovazione contrattuale, un sistema duale di governance come sostanziamento del principio di democrazia economica realizzabile, in primis, in aziende di interesse pubblico.

A rappresentare l'assoluta leggerezza ed assenza di progetto industriale complessivo con cui si intende procedere alla vendita del nuovo pacchetto azionario vi è in primo luogo la totale assenza di valutazione del quadro finanziario internazionale che indurrebbe un Governo responsabile a ripensare l'intero percorso.

L’inatteso risultato del referendum sulla Brexit ha innescato negli scorsi giorni un fortissimo declino dei valori azionari sui mercati internazionali, con conseguente innalzamento di tutti gli indici di volatilità ed una parallela instabilità sui mercati valutari. Tutti i mercati europei hanno subito flessioni superiori agli 8 punti percentuali nel giorno successivo alla Brexit, mentre Milano ha registrato il calo più forte mai registrato negli ultimi 22 anni con un -12,48% a 15.723 punti. Nei giorni successivi si è registrato un modesto recupero complessivo, assolutamente inadeguato a compensare le perdite.

Gli indicatori di volatilità della piazza milanese hanno subito una storica impennata il 24 giugno rimanendo su valori estremamente elevati nei giorni successivi, testimoniando l’alto grado di incertezza. 

Anche il titolo di Poste Italiane ha subito un declino marcato di oltre il 10%, quotando per giorni sotto la soglia psicologica di 6 €. Eppure la situazione finanziaria e le prospettive di crescita del titolo Poste Italiane restano solide.

Diversi studi recenti prodotti dalle principali banche di investimento internazionali posizionavano il titolo ad aprile 2017 all’interno di un intervallo tra 7,13 € e 8,15 €. Pur scontando un’isteresi dell’effetto Brexit sui mercati con un taglio delle aspettative di crescita del 5% e traslando - con un’ipotesi conservativa di correlazione 1:1 - questo effetto negativo sull’andamento prospettico del titolo di Poste Italiane, si rimane comunque all’interno di una forchetta di previsione tra 6,86 € e 7,74 €, superiore in ogni caso al prezzo di vendita programmato di 6,75 €. 

Pertanto, sposando l’ipotesi del governo di un potenziale ricavo dall’IPO sulla seconda tranche di Poste Italiane pari a 5,6 miliardi di € ad un prezzo di vendita di 6,75 € per azione, se ne deduce che rinviando l’IPO ad un momento più favorevole ma comunque entro 10 mesi da adesso, i potenziali ricavi per il Tesoro potrebbero oscillare in realtà tra i 5,7 miliardi ed i 6,42 miliardi di €, con benefici prospettici quantificabili tra 100 e gli 800 milioni di €.

L'esigenza del Governo di vendere una nuova tranche di azioni del Gruppo Poste Italiane ha di per sè motivazioni strutturalmente opinabili. Il Gruppo è solido, produce utili e versa cospicui dividendi annuali alle casse dello Stato.  

L'idea di procedere all’ulteriore privatizzazione, limitando la valutazione alla sola perdita futura dei dividendi relativi al possesso azionario, rende nel brevissimo antieconomica l'intera operazione.

L’avvenuta dismissione del 35,3% di azioni ha già comportato una perdita di 157 milioni di dividendi per lo Stato italiano nell'esercizio di bilancio 2015.

Se a questo si aggiunge che, come è già accaduto per altre aziende italiane ( vedi STET e la controllata Telecom) la privatizzazione non è legata ad alcuna leggibile prospettiva industriale del Gruppo ed è priva di un complessivo progetto strategico, i limiti e le conseguenze della cessione azionaria sono palesi. Si vuole fare cassa subito, senza tenere conto della perdita secca ed irreparabile dei guadagni futuri.

E si vuole fare cassa a prescindere dalla previsione di valorizzazione ulteriore prevista delle azioni del Gruppo. 

Per la CGIL, infatti, è chiaro che Il trend ribassista e la forte impennata della volatilità che si sono manifestate a seguito dell’esito del referendum sulla Brexit pongono dei rischi operativi significativi all’offerta globale di vendita (IPO), che teoricamente dovrebbe essere eseguita al prezzo di 6,75 € (il prezzo corrente allo 01/07 è di 6,045 €). Peraltro la CGIL ritiene che le prospettive di crescita del titolo, pur se influenzate dal debole andamento dei mercati rimangano, anche nella peggiore ipotesi, saldamente superiori al prezzo previsto per l’IPO. 

Di conseguenza una mera procrastinazione dei tempi consentirebbe anche di rivedere potenzialmente al rialzo il prezzo iniziale di vendita, con possibili benefici aggiuntivi per le casse dello Stato stimabili fino a 800 milioni di €.

Il non averlo pensato da parte del Governo certifica che l'operazione di vendita equivale, nelle intenzioni e nei fatti, ad una "svendita" di un patrimonio pubblico.

Se neanche di fronte ad un'analisi di questa natura, che suggerirebbe quanto meno di sospendere l'operazione di collocamento azionario, il Governo si fermerà, sarà finalmente esplicitata la miopia delle operazioni complessive di privatizzazioni previste nei prossimi mesi e la totale assenza di prospettazione di politica industriale, strategica per aziende che costituiscono asset portanti del Paese e dovrebbero essere utilizzate come volano di ripresa economica reale.

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