Alla IX Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera dei deputati
c.a. del Presidente Onorevole Salvatore Deidda
Roma, 12 marzo 2024
Oggetto: Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri concernente l’alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze nel capitale di Poste Italiane Spa
Nella nota di aggiornamento del documento di programmazione economica (Nadef), il ministro Giorgetti ha formalizzato la volontà del Governo di procedere alla dismissione di quote azionarie di aziende pubbliche a favore del mercato.
L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre il debito pubblico, per un incasso previsto attorno a 20 miliardi di euro complessivi. Una cifra che rappresenta lo 0,71% del debito pubblico, stimato a dicembre 2023 ad oltre 2800 miliardi, quindi una quota residuale in un’ottica di riduzione del debito da realizzarsi in tre anni.
È del tutto evidente che una cifra così esigua potrebbe essere recuperata nelle pieghe del bilancio statale che vale 800 miliardi senza alienare assets strategici per il Paese. Peraltro, i soldi recuperati dalla vendita di azioni saranno in brevissimo tempo persi visto che verrebbero meno gli introiti derivanti dalle generose cedole dei dividendi sugli utili che Poste (e non solo) garantisce allo Stato.
Venendo alla specifica situazione del Gruppo Poste Italiane, è di pochi giorni fa la notizia dell’invio di un apposito Dpcm alla Camera per il parere parlamentare delle commissioni Trasporti e Bilancio. Il Decreto prevede la progressiva cessione della quota di Poste attualmente in mano al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Cgil e Slc-Cgil ribadiscono la più totale contrarietà alla decisione del Governo di cedere le proprie quote del Gruppo. La vendita sarebbe un errore per svariati motivi, a partire dall’insussistenza delle ragioni finanziarie per cui tale operazione è stata annunciata.
Se infatti si procedesse con l’operazione, ipotizzando la cessione dell’intera quota azionaria in capo al Mef (il 29,26%), ai prezzi correnti di Borsa lo Stato incasserebbe circa 3,9 miliardi. Se questa cifra fosse tutta investita, come paventato, a riduzione del debito pubblico, il taglio del debito (applicando il 4,7% di interesse), produrrebbe un risparmio annuo di circa 182 milioni. Peccato che quest’anno lo Stato abbia incassato da Poste 248 milioni.
Il bilancio dello Stato da una parte risparmierebbe intorno ai 182 milioni di interessi sul debito, dall’altra rinuncerebbe a 248 milioni di dividendi: una perdita netta di 66 milioni di euro. Considerando che dal 2016 (anno in cui fu privatizzato il 35% delle azioni di Poste Italiane) ad oggi il Mef ha incassato in media circa 200 milioni di euro di dividendi all’anno (cifra, peraltro, in costante crescita, anche l’anno prossimo), possiamo concludere che l’alienazione della quota in capo al Mef di Poste Italiane si tradurrebbe in qualche decina di milioni di euro in meno ogni anno nelle casse dello Stato.
Riteniamo che già solo questa oggettiva valutazione economica dovrebbe indurre Governo e Parlamento ad abbandonare questa idea, tanto più che, per impattare negativamente sui conti pubblici, lo Stato si priverebbe di un pezzo del suo patrimonio. Ed è valutando un po' più in profondità l’entità di questo patrimonio, ovvero il valore di Poste Italiane, che emerge con ancora maggiore chiarezza quanto sarebbe grave se si procedesse con la vendita.
Desta più di un dubbio, infatti, la valutazione espressa da parte dell’esecutivo per cui, anche laddove dovesse essere venduta la quota del Mef, attraverso Cdp lo Stato manterrebbe la stessa capacità di controllo ed indirizzo delle scelte del Gruppo Poste. A nostro avviso invece tale modifica degli assetti azionari stravolgerebbe irrimediabilmente la natura stessa di Poste Italiane.
Stiamo parlando di un’azienda quotata in borsa, il cui meccanismo di governance non consente all’azionista di maggioranza di decidere in solitaria nomine ed indirizzi strategici dell’azienda. La cessione della quota del Mef invertirebbe gli attuali rapporti di forza all’interno dell’azionariato: il mercato, i fondi di investimento, arriverebbe a contare i due terzi dell’intera quota azionaria, pesando il doppio di Cdp. Impossibile immaginare che un aumento tanto significativo della pressione degli interessi esclusivamente finanziari non si rifletterebbe sulle scelte di fondo del Gruppo.
Giova ricordare che, fin dalla nascita dello Stato italiano, Poste raccoglie il Risparmio dei cittadini. Una gestione ‘sicura’ perché garantisce buoni rendimenti, senza mettere a repentaglio i risparmi di milioni di famiglie. Nel solo 2023 l’azienda ha raccolto circa 6.115 milioni di euro di Buoni Postali e quasi 1 miliardo di giacenze sui libretti postali. Il 60% delle risorse in pancia a CDP (oltre 240 miliardi) proviene dalla raccolta postale ed è utilizzata per finanziare infrastrutture, grandi opere e piccola imprenditoria. In sostanza, grazie al risparmio postale lo Stato sostiene settori strategici della nostra economia.
In futuro, il privato avrà un ruolo strategico nella gestione del risparmio di milioni di famiglie italiane raccolto da Poste e un condizionamento maggiore nei confronti di Cdp. Peraltro, già oggi in Cdp (che diventerebbe l’unico socio ‘pubblico’ di Poste) sono presenti le fondazioni bancarie, diretto concorrente dell’attività del Gruppo Poste Italiane.
Una maggior influenza degli investitori privati su Cdp ridimensionerebbe il ruolo dello Stato nell’unica leva finanziaria che consente di fare investimenti legati alle politiche industriali necessarie al Paese. E stiamo parlando di risorse che sono in gran parte formate dal risparmio degli italiani e versato a Poste.
Più di recente poi, Poste è diventata la più grande azienda digitale e il più grosso gestore di dati personali del Paese. Si pensi ai dati generati dalle attività degli uffici postali o a quelli legati alle identità digitali (SPID) rilasciate da Poste Italiane (oggi circa 25 milioni). Ma anche alla mole di dati raccolti nella campagna vaccinale anti-Covid e nell’erogazione di servizi per la Pubblica Amministrazione, senza scordare i dati necessari al recapito di corrispondenza e pacchi. In caso di vendita ai privati, come garantire che nessuno, oltre lo Stato, metterà le mani sui dati personali di milioni di italiani?
Per non parlare del ruolo insostituibile che l’azienda ha svolto in oltre 160 anni di storia per garantire la coesione territoriale e sociale del Paese. Poste Italiane ha una presenza capillare su tutto il territorio nazionale: i 12.755 uffici postali sono distribuiti su tutti i 7.896 Comuni italiani. Questo li rende dei veri e propri presìdi dello Stato, ruolo di fondamentale importanza non solo nelle città e nei maggiori centri abitati, ma soprattutto nelle frazioni periferiche, nei piccoli comuni, nelle comunità montane, e in tutte quelle aree in cui lo spopolamento rischia di privare i cittadini di qualsiasi punto di riferimento.
Circa il 70% dei Comuni italiani è infatti costituito da realtà con meno di cinquemila abitanti. In queste, spesso, l’unico servizio garantito è quello postale e gli uffici postali rappresentano l’unica possibilità di accedere fisicamente anche ai servizi della pubblica amministrazione.
Finché il Gruppo Poste Italiane rimarrà a controllo pubblico, continuerà ad assicurare la presenza dello Stato in ogni angolo della penisola. Al contrario, l’ingresso di ulteriori capitali privati imporrebbe all’azienda le logiche del profitto, anteponendole agli interessi delle comunità. Il rischio di abbandono del territorio diventerebbe altissimo.
Anche l’attività di recapito è un asset prezioso per tutti i cittadini. Risulta difficile immaginare che sul mercato esistano altri soggetti oltre Poste Italiane che siano in grado di implementare le infrastrutture necessarie a spedire pacchi e corrispondenza lungo tutta la penisola. Grazie al Servizio Universale, Poste garantisce a ogni cittadino, indipendentemente dal luogo in cui vive, l’accesso a tutti i servizi di recapito (compreso l’e- commerce). Un impegno molto oneroso e poco remunerativo.
Nel 2026 scade il contratto di servizio e sarà necessario per lo Stato ricontrattarne le condizioni. Da anni Poste Italiane sostiene un servizio in perdita nell’esclusivo interesse del Paese. Chi si farà carico di tale onere? Sotto la pressione degli interessi privati difficilmente il gruppo dirigente di Poste sarebbe nelle condizioni di sostenere un’attività non remunerativa, che, nella migliore delle ipotesi, verrebbe ulteriormente ridotta, con inevitabili ripercussioni negative sulla qualità del servizio.
Lo dimostrano i dati: dal 2016, anno in cui il 35% delle azioni in mano allo Stato passarono al mercato il costo del lavoro si è ridotto da 6 miliardi e 240 milioni a 5 miliardi e 220 milioni. Risultato ottenuto riducendo il numero degli addetti (diminuiti di circa diciannovemila unità), aumentando il ricorso al lavoro precario (i contratti a tempo determinato sono quasi raddoppiati in termini assoluti) e all’esternalizzazione di manodopera. Il taglio di personale, pari a un miliardo di euro, ha comportato un drastico calo di sportelli attivi presso gli uffici postali, nonché il ridimensionamento del servizio di recapito, con le conseguenti ricadute negative in termini di minori servizi offerti alla cittadinanza.
Da quando il Governo ha annunciato l’intenzione di procedere con la vendita delle quote del Gruppo Poste Italiane in capo al Mef ci chiediamo il perché di tale operazione. A chi gioverebbe? Sicuramente non ai conti dello Stato, né tanto meno agli interessi collettivi dei cittadini italiani, privati di un asset strategico capace di gestire nell’interesse pubblico servizi strategici per il Paese.
Siamo ancora in tempo per fermare questa operazione profondamente sbagliata sotto tutti i punti di vista.
Nicola Di Ceglie
Segretario Nazionale Slc Cgil - Area Servizi Postali