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Alla C.A. Ministro per l’innovazione tecnologica e la transazione digitale
Dott. Vittorio Colao

Alla C.A. Ministro dello Sviluppo Economico
On. Giancarlo Giorgetti

Alla C.A. Sottosegretario MISE con deleghe sulla banda ultralarga,
sulle telecomunicazioni, sul digitale e sul sistema cooperativo
On. Anna Ascani

Tim: uno spreco evitabile

In tutti i paesi occidentali i processi di liberalizzazione del mercato delle TLC non hanno coinciso con la fine industriale degli ex monopolisti. Parliamo di aziende che hanno continuato ad avere posizioni da “incumbent” inevitabili per la loro storia ma che, grazie a processi di privatizzazione oculati e corretti contesti regolatori, hanno continuato ad essere dei “campioni nazionali”, capaci di guidare i progetti infrastrutturali interni ed attivi sul piano internazionale come attori di processi di acquisizione e consolidamento di mercati esteri. Delle vere e proprie “public company” aperte al mercato ma con una significativa presenza di capitali “pazienti” pubblici che hanno avuto il duplice pregio di stabilizzarne la governance e permettere alle istituzioni di quei paesi di continuare ad avere voce in capitolo su una infrastruttura strategica come la rete di telecomunicazioni (basti guardare a quanto avvenuto in Francia con Orange, già France Telecome, ed in Germania con Deutch Telekom).

E in Italia? Da noi, come spesso accade, si è imboccata una strada differente. Un po' per assenza di un progetto Paese (ogni Governo che si è insediato ha di fatto avuto una propria idea di intervento nelle reti di TLC, procedendo scientificamente a disfare il modello precedente e non avendo né il tempo né, spesso, le idee per costruirne di nuovi), un po' per una particolare impostazione della Unione Europea che non ha permesso qui ciò che ha autorizzato in altri Paesi si è imposto col tempo un modello di mercato TLC totalmente affidato al mercato, permettendo la demolizione scientifica dell’ex monopolista. Questo ha di fatto portato all’assenza di una “azienda paese” che sapesse imporre, sebbene in un contesto di liberalizzazione, una competizione equilibrata, che non avesse del concetto di “consumer first” un’accezione esclusivamente rivolta alla folle competizione tariffaria a scapito degli investimenti infrastrutturali.

Oggi quindi si raccolgono i frutti di un disegno, o forse della sua mancanza, che viene da lontano. Fino a tre anni fa circa la governance instabile di Tim ha favorito la sua costante perdita di efficacia ed efficienza. Quello che qualche decennio fa era il quinto operatore mondiale di TLC ha perso quasi totalmente ruolo internazionale e nel mercato italiano ha iniziato un rapido declino. Un declino non solo causato dalla comparsa dei gestori alternativi. Un declino molto legato a cause endogene, alla totale assenza di una propria idea di modello industriale.

Il “Memorandum” di agosto 2020 firmato fra Tim e CDP per la confluenza di Tim ed Open Fiber rappresentava finalmente l’inizio della strada per il superamento di un assurdo dualismo infrastrutturale, un vero spreco di energie, a favore della costruzione di un modello aperto al coinvestimento e regolato dal sistema delle Authority. Il superamento del modello “whole sale only” di Open Fiber, ovvero l’idea che lo stato dovesse presiedere esclusivamente alla fornitura all’ingrosso di connettività, lasciando ancora una volta al mercato la libertà di commercializzare i vari servizi. Questo modello non è funzionale al superamento del digital divide. Lo sviluppo dei vari servizi presuppone l’implementazione di reti più o meno capaci. E’ di tutta evidenza che la certezza del ritorno degli investimenti privati per lo sviluppo di servizi ultrabroadband favorisce lo sviluppo delle aree “A” e “B” a svantaggio delle aree a “fallimento di mercato” dove pure insiste circa il 45% della popolazione.

Del resto basta vedere i rapporti della Comunità europea sull’indice di digitalizazione degli stati membri (rapporto DESI) che si sono succeduti dal 2015 (anno della redazione del primo Piano governativo BUL) per verificare come nel più generale avanzamento infrastrutturale del paese il divario fra le aree interne e quelle a mercato di fatto non si è mai attutito.

Oggi il “memorandum” è di fatto superato dal modello sponsorizzato dal Ministro Colao. Un modello fatto di “micro bandi” attraverso i quali si regalano soldi pubblici ad operatori privati per la costruzione di porzione di reti di cui i privati rimarranno proprietari. Francamente un modello incomprensibile. Tante piccole reti non fanno una rete primaria nazionale inclusiva e pervasiva di tutte le realtà del paese. Chi farà da guida in questo modello di sviluppo? Chi garantisce l’omogeneità della qualità infrastrutturale? Quale ruolo ricava per sé lo Stato in questa vicenda? Quello di bancomat per i soggetti privati e di mero spettatore di un mercato che ha già dimostrato di avere ampiamente bisogno di soggetti pubblici che sappiano regolamentarne lo sviluppo?

In questo contesto arriviamo quindi alle vicende che riguardano Tim. Anche qui occorre constatare come il Governo stia ritagliando per sé il ruolo di mero spettatore. Questo sarebbe uno sbaglio storico di cui sarebbe chiamato a rispondere. Se siamo d’accordo, e come potremmo non esserlo sulla base dei dati sulla digitalizzazione del Paese nell’ultimo decennio, che il modello adottato non ha funzionato oggi il Governo non può permettersi di non giocare un ruolo attivo nella vicenda Tim. La recrudescenza della conflittualità della governance aziendale e la conseguente offerta di acquisto da parte del Fondo americano KKR apre degli scenari che, se non opportunamente governati, rischiano di portare al definitivo tracollo di Tim, al suo totale smembramento e, evidentemente, a contraccolpi occupazionali onerosissimi.

Non riteniamo sia esagerato paventare un finale molto simile a quello che ha coinvolto Alitalia. Un gruppo che occupa oltre 40mila addetti, in una operazione di spezzatino, inevitabilmente andrebbe a causare migliaia di esuberi che il Paese non può permettersi, e che noi con forza intendiamo scongiurare. La nostra posizione non è contraria a logiche di mercato che favoriscano una concorrenza leale sulla qualità dei servizi erogati alla cittadinanza, ma qualunque scelta va fatta scongiurando drammi occupazionali e la definitiva uscita dello Stato da un settore strategico sia sul piano nazionale che su quello continentale, tutto questo nell’interesse primario dello sviluppo tecnologico e sociale del nostro Paese.

La sfida tecnologica fra Stati Uniti e Cina vede come unica speranza di resistenza per l’Europa una stagione di aggregazioni continentali a partire dai vari “campioni nazionali”. Se l’Italia vuole giocare un ruolo in questa partita importantissima deve avere un proprio “campione”, una “azienda paese” a controllo pubblico che possa giocare la propria partita. Altrimenti questo Governo condannerà il Paese ad un ruolo di mero mercato sullo scacchiere europeo ed internazionale, aperto a qualsiasi acquisizione e senza alcuna prospettiva industriale. A voi la scelta!

Roma, 2 dicembre 2021

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