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In tutti i paesi occidentali i processi di liberalizzazione del mercato delle TLC non hanno coinciso con la fine industriale degli ex monopolisti. Parliamo di aziende che hanno continuato ad avere posizioni da “incumbent” inevitabili per la loro storia ma che, grazie a processi di privatizzazione oculati e corretti contesti regolatori, hanno continuato ad essere dei “campioni nazionali”, capaci di guidare i progetti infrastrutturali interni ed attivi sul piano internazionale come attori di processi di acquisizione e consolidamento di mercati esteri. Delle vere e proprie “public company” aperte al mercato ma con una significativa presenza di capitali “pazienti” pubblici che hanno avuto il duplice pregio di stabilizzarne la governance e permettere alle istituzioni di quei paesi di continuare ad avere voce in capitolo su una infrastruttura strategica come la rete di telecomunicazioni (basti guardare a quanto avvenuto in Francia con Orange, già France Telecom, ed in Germania con Deutsche Telekom).

E in Italia? Da noi, come spesso accade, si è imboccata una strada differente. Un po' per assenza di un progetto Paese (ogni Governo che si è insediato ha di fatto avuto una propria idea di intervento nelle reti di TLC, procedendo scientificamente a disfare il modello precedente e non avendo né il tempo né, spesso, le idee per costruirne di nuovi), un po' per una particolare impostazione della Unione Europea che non ha permesso qui ciò che ha autorizzato in altri Paesi, tutto ciò ha di fatto imposto col tempo un modello di TLC totalmente affidato al mercato, permettendo la demolizione scientifica dell’ex monopolista.

Oggi, purtroppo, si raccolgono i frutti di un disegno, o forse della sua mancanza, che viene da lontano. Fino a tre anni fa circa la governance instabile di Tim ha favorito la sua costante perdita di efficacia ed efficienza. Quello che qualche decennio fa era il quinto operatore mondiale di TLC ha perso quasi totalmente ruolo internazionale e nel mercato italiano ha iniziato un rapido declino, causato non solo dalla comparsa dei gestori alternativi ma legato a cause endogene, alla totale assenza di una propria idea di modello industriale.

Il “Memorandum” di agosto 2020 firmato fra Tim e CDP per la confluenza di Tim ed Open Fiber rappresentava finalmente l’inizio della strada per il superamento di un assurdo dualismo infrastrutturale, un vero spreco di energie, a favore della costruzione di un modello aperto al coinvestimento e regolato dal sistema delle Authority. Il superamento del modello “whole sale only” di Open Fiber, ovvero l’idea che lo Stato dovesse presiedere esclusivamente alla fornitura all’ingrosso di connettività, lasciando ancora una volta al mercato la libertà di commercializzare i vari servizi. Questo modello non è funzionale al superamento del digital divide.

Si continua a ripetere da più parti che la costruzione di una rete di nuova generazione debba passare necessariamente dallo smembramento di Tim, ma nessuno è stato sino ad oggi in grado di argomentare ciò con elementi probanti seri. La salvaguardia degli ex monopolisti non ha impedito in nessun paese sviluppato dell’occidente la nascita di mercati TLC aperti, competitivi. Anche da un punto di vista tecnologico mal si comprende l’esigenza di demolire Tim. La separazione netta della rete dall’operatore “incumbent” ha pochi esempi al mondo e spesso non proprio incoraggianti (l’Australia ha scelto il modello “whole sale only” ed oggi è il paese occidentale con la connettività media più bassa).

Oggi il “memorandum” è di fatto superato dal modello sponsorizzato dal Ministro Colao. Un modello fatto di “micro bandi” attraverso i quali si regalano soldi pubblici ad operatori privati per la costruzione di porzione di reti di cui i privati rimarranno proprietari. Un processo che non collima con le tante dichiarazioni politiche che indicano nella rete unica a controllo pubblico la strada da compiere, quindi dobbiamo aspettarci che in un secondo momento lo Stato riacquisterà quegli asset che ha già sostanzialmente pagato? Sarebbe, se ciò avvenisse, la storia che si ripete: il destino di Tim dopo la privatizzazione deve coincidere necessariamente con gli sprechi, le opacità, lo sperpero di denaro pubblico? Lascia davvero attoniti il silenzio delle istituzioni di fronte a tutto questo. La si smetta con la storiella della neutralità dinanzi al mercato.

Lo Stato, attraverso CdP ha una forte influenza su ciò che avviene in aziende strategiche per il Paese. Oltre agli slogan di facciata il Governo ha il dovere di dire una volta per tutte come intende realizzare l’infrastruttura indispensabile alla digitalizzazione del Paese. Siamo di fatto in procinto di assistere ad un riassetto complessivo del settore delle TLC a partire da ciò che sarà di Tim, è davvero intollerabile che ciò avvenga senza un progetto Paese chiaro ed un confronto trasparente e pubblico. Da come avverrà questa ristrutturazione dipende il futuro occupazionale di decine di migliaia di persone e lo sviluppo tecnologico del Paese. Tutto ciò non può essere deciso da una piccola “oligarchia” più attenta agli sviluppi finanziari che a quelli industriali di prospettiva. Oggi Tim sembra apprestarsi a gettare le basi per lo smembramento dell’azienda ma, nei fatti, nessuno è in grado di spiegare come e perché ciò dovrebbe velocizzare la digitalizzazione del Paese. Siamo evidentemente dinanzi ad una operazione che ha come unico scopo “l’estrazione di valore” ovvero la mera valorizzazione finanziaria di asset singoli. Il tutto senza aver in alcun modo posto rimedio al male che ha affossato Tim negli anni, la debolezza delle governance, che con l’applicazione di un modello di “sdoppiamento” verrebbe ulteriormente riprodotto. Non c’è che dire, sarebbe un autentico capolavoro.

Il primo incontro con il nuovo AD di Tim non ha sciolto alcuno di questi forti dubbi. Fino al 2 marzo, data di presentazione del nuovo piano di impresa, si lavora su diversi contesti. Ad oggi, non è stata decisa alcuna strada precisa, a partire da quella dello scorporo. Ipotesi oggetto naturalmente di studi approfonditi nei termini di analisi dei pro e dei contro ma non ancora stabiliti. Non riteniamo sia esagerato paventare un finale molto simile a quello che ha coinvolto Alitalia. Un gruppo industriale che oggi occupa circa 43.000 lavoratrici e lavoratori, in una operazione di spezzatino, inevitabilmente andrebbe a causare migliaia di esuberi che il Paese non può permettersi, e che noi con forza intendiamo scongiurare. La nostra posizione non è contraria a logiche di mercato che favoriscano una concorrenza leale sulla qualità dei servizi erogati alla cittadinanza, ma qualunque scelta va fatta scongiurando drammi occupazionali, e la definitiva uscita dello Stato da un settore strategico sia sul piano nazionale che su quello continentale, tutto questo nell’interesse primario dello sviluppo tecnologico e sociale del nostro Paese.

Siamo ancora in tempo per evitare decisioni sbagliate. Ma questo presuppone un forte coinvolgimento e la massima chiarezza di tutti nella convinzione che la partita legata al futuro di Tim e del settore delle TLC non possa essere la sommatoria di mere e molteplici operazioni finanziarie. Nel tempo che ci separa dalla presentazione del piano industriale occorrerà lavorare incessantemente, in azienda come nel settore e nei confronti della politica, per creare una consapevolezza sulla giustezza delle nostre argomentazioni.

Il Governo deve uscire definitivamente da quel cono d’ombra nel quale si è nascosto sul tema della rete di nuova generazione. Tim sta preparando un piano industriale fondamentale, che può avere un esito a nostro avviso disastroso. Il confronto sulla costruzione di questo Piano, che giudicheremo con grandissima attenzione, dovrà avere ritmi serrati ed è opportuno che si sappia che per parte nostra lavoreremo, anche con il coinvolgimento dei lavoratori, a difesa della unicità dell’azienda, dei livelli occupazionali e del futuro industriale per la risoluzione della debolezza della governance attraverso un ruolo attivo delle istituzioni e contro ogni ipotesi che preveda “Good” e “Bad” company.

Il prossimo 3 febbraio si svolgerà l’attivo unitario di tutte le “RSU confederali” di Tim per rafforzare in azienda la nostra posizione, analizzare la situazione e valutare le nostre azioni future.

La sfida tecnologica fra Stati Uniti e Cina vede come unica speranza di resistenza per l’Europa una stagione di aggregazioni continentali a partire dai vari “campioni nazionali”. Se l’Italia vuole giocare un ruolo in questa partita importantissima deve avere un proprio “campione”, una “azienda Paese” a controllo pubblico che possa giocare la propria partita. Altrimenti questo Governo condannerà il Paese ad un ruolo di mero mercato sullo scacchiere europeo ed internazionale, aperto a qualsiasi acquisizione e senza alcuna prospettiva industriale.

Roma, 25 gennaio 2021

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